ENRICO AZZINI – RECENSIONI 2009 – 2019

GADDA LETTERE A UNA GENTILE SIGNORA

GADDA & LETTERATURA ITALIANA

C. E. GADDA – LETTERE A GIANFRANCO CONTINI

C. E. GADDA – LETTERE A UNA GENTILE SIGNORA

C. E. GADDA – PER FAVORE MI LASCI NELL’OMBRA

A. LIBERATI – IL ‘MIO’ GADDA: PADRI, MADRI, ZIE – E UNA E.

F. T. MARINETTI – L’ALCOVA D’ACCIAIO

F. ROSA – GUIDA QUASI GALATTICA PER VOLONTARI ANIMALISTI

V. ZEICHEN – POESIE 1963 – 2014

LETTERATURA & CULTURA AMERICANA & NEW JOURNALISM

NEAL CASSADY – I VAGABONDI

JOAN DIDION – PRENDILA COSI’

JOAN DIDION – WE TELL OURSELVES STORIES IN ORDER TO LIVE

STANLEY ELKIN – IL SANGUE DEGLI ASHENDEN/CONDOMINIO

COTTEN SEILER – REPUBLIC OF DRIVERS

JOHN STEINBECK – FURORE

TOM WOLFE – L’ACID TEST AL RINFRESKO ELETTRIKO

TOM WOLFE – MALEDETTI ARCHITETTI

TOM WOLFE – RADICAL CHIC

DIDION PLAY IT AS IT LAYS 02

CLASSICI DI LETTERATURA AERONAUTICA

TOM CLANCY – STORMO DA CACCIA

AMELIA EARHART – FELICE DI VOLARE

WILLIAM FAULKNER – OGGI SI VOLA

ANDRE’ MALRAUX – LA SPERANZA

ANTOINE DE SAINT’EXUPERY – PILOTA DI GUERRA

TOM WOLFE – LA STOFFA GIUSTA

MICHAEL WOOD – GO AN EXTRA MILE

CONTEMPORANEI DI STORIA AERONAUTICA

ANTONIO CASTELLANI – MAYDAY: ALLARME NEI CIELI

GIUSEPPE D’AVANZO – ALITALIA: ASCESA E DECLINO

FRANCESCO GRECO – LA FIONDA DI DAVID

ALFREDO STINELLIS – STORIA DI UN AEROPORTO: DA ROMA LITTORIO A R. URBE

QUANDO VERRA' LA RIVOLUZIONE AVREMO TUTTI LO SKATEBOARD - SAID SAYRAFIEZADEH

LETTERATURA DI SCIVOLAMENTO [REALE E APPARENTE]

NICK HORNBY – TUTTO PER UNA RAGAZZA

FLAVIO PINTARELLI – STUPIDI GIOCATTOLI DI LEGNO

SAID SAYRAFIEZADEH – QUANDO VERRA’ LA RIVOLUZIONE AVREMO TUTTI LO SKATEBOARD

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RENATO CROCE, QUELLO STRANO PILOTA DEL TROFEO ALFASUD… – terza parte

Nell”83 Croce sembra essere il pilota da battere. A marcare la sua peculiarità Autosprint, prima che si riaccendano i motori, gli pubblica un racconto. Quello del pilota – molto giovane, tra l’altro, ha solo 23 anni – che scrive è un caso piuttosto raro e leggere Quello strano campione del mondo… evidenzia come Croce sia veramente una persona fuori dal comune. L’autore descrive un mondo nuovo nel quale i piloti che gareggiano nei Gran Premi accettano di essere sottoposti a trattamenti che prevedono droghe per i riflessi e iniezioni di fibre metalliche per migliorare la resistenza fisica.

Il pilota di formula uno in tale fase tecnologica avanzata, non può più essere una entità autonoma e creativa, ma finisce per essere una specie di prodotto finito, con dei precisi legami genetici in parallelo fra lui e la macchina.

Che il pilota potesse definirsi autonomo e creativo era già un’affermazione singolare. All’improvviso però si fa largo un pilota che intende rivendicare la sua umanità e non vuole sottomettersi a questi apporti esterni. Medici, sponsor, addetti ai lavori, tutti sono perplessi di fronte ai propositi e alla capacità di resistenza, ma i test sono soddisfacenti e, per quanto stremato, il pilota riesce a recuperare rapidamente.

Pur raccolto in un paio di pagine, il racconto è ricco di elementi di riflessione (il Mondiale comincia in Cina, lo sponsor personale di questo outsider è una ditta di strumenti musicali, il legame morboso con la macchina – è stato concepito in automobile – porta il soffio patologico di Ballard), con lo stesso pilota a parlare in prima persona. Paradigmatico è il casco, che abbandona le immagini per il testo, un po’ come la scarna frase THE WILL TO WIN che appariva su quello di Mark Blundell, siamo sempre a metà anni Ottanta. Anche in questo caso la volontà è forte, ma circondata di oscurità. Sul casco è scritto:

Le caratteristiche di un pilota solitario sono cinque: 1) che vola verso il punto più alto; 2) che non sopporta i compagni, neppure simili a lui; 3) che mira il suo viso al cielo; 4) che non ha un colore definito: 5) ma che sa costruire un dolcissimo canto.

Siamo nell’epica più pura e disperata.

Quello strano campione del mondo… viene pubblicato a fine gennaio. Nell’esordio stagionale, a Imola a fine aprile, l’emiliano brilla in prova ma poi non si presenta al via della gara. Per motivi di salute, un forte stato febbrile, precisa l’inviato. Cosa è successo? Mentre il Trofeo attraversa l’Europa, di Croce si perde ogni traccia.

Il nome di Renato Croce torna l’anno successivo. È uno shock. Autosprint pubblica la notizia della sua morte nella rubrica della posta. E’ in una lettera di Mario Simoni, che nonostante sia il collaboratore di AS che seguiva il campionato ne parla come chi lo ha conosciuto e apprezzato, da amico. Si parla di droga, di un’epatite, della partenza per il servizio militare.

Non so quanti fra i lettori di Autosprint ricordino il nome di Renato Croce. Sicuramente, per i più appassionati, per quelli che seguono con uguale attenzione anche le gesta dei giovani piloti che stanno emergendo nei campionati promozionali, non sarà difficile ricordare le sue vittorie nel Trofeo Alfasprint del 1982. Ho appena appreso la ntizia della sua morte e ho voluto scrivervi, non come collaboratore di AS ma come semplice appassionato e amico di Renato, per poterlo ricordare in modo diverso da quello che in certe circostanze viene dedicato alla scomparsa di un giovane pilota fuori dalle piste. Ho voluto farlo perché dietro alle cause della sua morte c’è un dramma chiamato droga che sembra così lontano dal mondo delle corse ma che purtroppo qualche volta coinvolge e travolge dei ragazzi che, proprio perché hanno un motivo in più per cui lottare e superare i mille problemi della vita, sembrerebbero a prima vista immuni da questo problema. Renato Croce aveva da compiuto da poco più di tre settimane 25 anni e fino a un anno fa era considerato da tutti uno dei più promettenti piloti italiani dei campionati promozionali. L’avevo conosciuto nel 1982, nella stagione in cui aveva conteso fino all’ultimo il titolo continentale del Trofeo Alfasprint a Leone Pelachin. Subito dopo la prima intervista non c’era voluto molto a diventare amici. Né le doti umane né quelle di guida gli mancavano, e sembrava destinato a un futuro di primo piano in campo agonistico. Il suo carattere era senza dubbio fuori dall’ordinario e il suo rapporto con le macchine – come mi aveva confessato lui stesso – era di amore-odio. Cercava insomma di sfogare attraverso le corse tutti quei problemi (famiglia, sentimenti, amicizie, eccetera) che appaiono spesso insormontabili per tanti ragazzi. Appunto per questo suo <<sfogo>> rappresentato dalle corse lo vedevo lontano dal dramma della droga. Ma, come spesso succede, è caduto in quello che, con fin troppa facilità, viene definito <<un brutto giro di amicizie>>, prima una epatite virale, poi il sempre più pressante problema della droga, l’avevano allontanato dalle corse. L’avevo visto in pista per l’ultima volta a Imola, un anno fa, per la gara del Trofeo Alfasprint, alla vigilia del GP di San Marino. Come sempre aveva svettato nelle prove, ma il giorno della corsa le sue condizioni fisiche gli avevano impedito di prendere il via nella gara del Trofeo. Poi era partito per il servizio militare e da allora c’eravamo sentiti solo qualche volta, ma mi aspettavo di risentirlo da un giorno all’altro e di rivederlo di nuovo in pista. Invece, all’improvviso, è giunta la notizia della sua morte che, anche se non potremo mai saperlo con certezza, è drammaticamente legata al problema della droga.

KIT PISTONI ALLEGGERITI PER ULISSE, metafora di vaso attico a figure rosse

Qualche mese dopo Autosprint pubblica una lettera del padre.

Vi scrivo per ringraziare voi di AS e il vostro Mario Simoni per la lettera che avete dedicato alla scomparsa di mio figlio, Renato Croce, pubblicata sul n. 14 di AS. Vi ho scritto però anche per spiegare a voi e a tutti i giovani lettori di Autosprint come mio figlio è entrato nel mondo della droga. Lo faccio perché la sua esperienza possa servire di monito a tutti quei ragazzi che entrano in questo terribile mondo, cominciando a vivere questa esperienza con l’incoscienza e la spavalderia tipica dei ventenni. Renato vi è entrato come si entra in una <<sbronza>> in cui si vuole annegare una delusione e un’ingiustizia. L’ingiustizia gli creava sempre una grossa sofferenza: non riusciva ad accettarla. Lui, quando mi accorsi di quello che stava facendo, al termine del trofeo Sprint 1982, mi disse che quella era un’esperienza che doveva e voleva fare. Un’esperienza che gli serviva per capire cose che altrimenti non avrebbe mai potuto comprendere. Mi disse che non correva alcun pericolo, che non sarebbe mai diventato un tossicodipendente perché, a suo dire, era certo che tossicodipendenti diventano solo le persone deboli, e lui non lo era. Sarebbe stato in grado di uscirne sempre, quando avesse voluto. Renato era abituato a fare di testa sua, a non farsi aiutare o consigliare da nessuno. Quando decideva una cosa andava fino in fondo e non ammetteva di avere torto. Non valse a nulla dirgli che la droga era una bestia infida, una specie di grossa piovra che si era caricato pesantemente sulle spalle e che ogni giorno lo avrebbe stretto sempre di più coi suoi tentacoli, fino a non poterne più sfuggire. Questo gli dissi quel giorno, ma lui mi sorrise e, dolcemente, mi rispose di non preoccuparmi per lui perché quello che stava facendo era una specie di esperimento. Lui mi disse che accettava la sfida con la piovra e che non correva alcun pericolo: presto avrebbe deciso di smettere e ne sarebbe uscito senza problemi. Da quel dialogo trascorse un anno, fino agli avvenimenti degli ultimi tre mesi in cui tentava disperatamente di uscirne, ma anche in questo voleva fare da solo, a modo suo. Niente metadone, niente disintossicazione in ospedale, ninete comunità. L’ultimo mese è stato un calvario, perché resisteva qualche giorno e poi la testa gli scoppiava – così diceva – e finiva quindi col ricadere nella siringa. L’ultima settimana l’avevo convinto a entrare in ospedale: è rimasto mezz’ora poi si è fatto dimettere. <<Papà, fammi provare ancora una volta a modo mio, se anche questa volta non dovessi riuscire farò tutto quello che vorrai tu>>. Il giorno precedente quel venerdì mi telefonò dicendomi: <<Papà, adesso sto meglio, fra qualche giorno ne sarò uscito del tutto. Vedrai, fra un mese questo sarà solo un brutto ricordo>>. Il mese ormai è trascorso, ma il ricordo è ben diverso da quello sperato. Solo, indifeso, terribilmente indifeso e ingenuo, come sempre, non si è reso conto che la piovra aveva ormai vinto la sua sfida.

Gaetano Croce – Ferrara1

Dopo qualche ricerca e un messaggio lasciato in segretaria Gaetano Croce mi richiama. È la fine del 2011. Sono trascorsi ventisette anni dalla morte del figlio. Non aveva molta voglia di ricordare. Pur avendo collaborato con Autosprint per un decennio intero ho avuto parecchia fortuna, meno l’ha avuta Attilio Broccolini, l’unico del quale ho dovuto scrivere che aveva avuto un incidente fatale. Comprendo, sono discreto, non forzo. Parliamo un poco al telefono. Anche lui era stato pilota, niente di eccezionale, qualche edizione della Bologna-Raticosa. Amava però ripetere che Renato aveva un dono, il dono di piacere. Oltre al talento, ovviamente. Riusciva bene in tutto, in montagna, a pallacanestro, lo portava a vedere la Virtus. Aveva dei sospetti su quello che era successo a Monza nell”82, quando il figlio lottava per il titolo. Lo aveva messo in guardia da quel pilota che in quella stagione non aveva mai corso con le Sprint. Perché l’hanno messo lì, si chiedeva. In gara si urtarono, la vettura di Renato era andata fuori assetto e forzando per recuperare era uscito di pista. Ricordava che Renato aveva sofferto per quest’ingiustizia, perché ammirava quel pilota e lo considerava un amico. E la droga? Si pensava potesse accadere solo ai figli degli altri. C’era il rapporto speciale e il medico della struttura a Ferrara dove si era rivolto per uscirne. Quando ci parlammo portava ancora dei fiori sulla sua tomba. Forse una delle poche a ricordare un pilota tanto veloce quanto scomodo.

1Autosprint n. 19, 8/14 maggio 1984, p. 156.

ENRICO AZZINI è stato collaboratore di Autosprint dal 1990 al 1999 e inviato per il CIVM nel ’98 e ’99. Ha pubblicato BOLIDI ROSSI E CAMICIE NERE – Storia delle competizioni automobilistiche durante il Fascismo, VELE DA TERRA, AIRCRAFT FOR BEGINNERS, IL TENENTE PILOTA ENRICO GADDA – Breve vita del Gadda bello, spensierato e aviatore e TUTTE LE COSE CHE SCIVOLANO.

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RENATO CROCE, QUELLO STRANO PILOTA DEL TROFEO ALFASUD… – seconda parte

(da Quattroruote, gennaio 1976)

IL TROFEO ALFASUD

Il Trofeo Alfasud fu uno dei campionati monomarca di vetture strettamente derivate dalla serie di maggior successo tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi Ottanta. Sono anni nei quali l’impegno nelle corse dell’Alfa, guidata da Ettore Massacesi, è molto forte. Nel ’79, dopo anni in cui ha fornito solo i motori, torna a schierare una monoposto di Formula Uno completa. Ma ovviamente l’attività sportiva non può escludere le vetture di serie che vincono le gare e così le Alfasud, che dal ’72 viene prodotta a Pomigliano D’Arco, danno vita a campionati nazionali e poi ad un monomarca continentale. Per quanto meno prestigioso del Renault con la Coppa dedicata alla R5, con la quale si spartisce il contorno alle competizioni più importanti, dalla Formula Uno all’Europeo Turismo, partecipano nomi che raggiungeranno anche la F.1 come Gerhard Berger, che correrà in Ferrari e vincerà dieci Gran Premi, e Luis Perez Sala.

L’Alfasud esordisce in un monomarca dedicato nel 1975. È un’iniziativa di un concessionario austriaco per un campionato esclusivamente nazionale, ma l’interesse è tale che l’anno seguente la serie raddoppia in Italia. Viene fornito un kit Autodelta che prevede la sostituzione del motore completo originale con uno da 1300 cc (alesaggio di 80mm per una corsa portata da 59 a 64mm), tutti gli accessori, due carburatori doppio corpo, lubrificazione forzata con radiatore, scarichi, rapporto finale diverso, dotazioni di sicurezza, kit assetto e carrozzeria per montare cerchi 8 x 13. Il motore eroga intorno ai 110, 115 cavalli a 6500 giri, permettendo di raggiungere velocità superiori ai 200 chilometri orari. Dal ’77 ad Austria ed Italia si aggiungono Francia e Germania1, finché i rispettivi campionati nazionali vengono rimpiazzati dal Trofeo Alfasud europeo nel 1981. Nel 1982 la berlinetta lascia il testimone ad una Sprint molto vicina alla vettura di serie, mossa da un 1500 cc da 140 cavalli a 7500 giri. Nel 1983 infine la coupé assume un aspetto estetico differente, con dei parafanghi conformal che la rendono sicuramente più efficiente e aggressiva ma anche piuttosto banale.

RENATO CROCE

Renato Croce nasce a Bologna il 2 marzo del ’59. Cresce e vive però a Ferrara, dove il padre è titolare di una concessionaria Alfa Romeo. Debutta nel ’79 nella scuderia Carint-Autolodi diretta da Beppe Bernaboni, con le Alfasud del Trofeo preparate da Aldo Bigazzi. È il modo migliore per mettersi in luce e infatti Croce è veloce, uno dei piloti più promettenti. Nella stagione d’esordio termina al 19. posto con 33 punti, nella successiva ottiene anche un podio. È nel 1981, il primo anno nel quale i campionati nazionali vengono condensati in uno continentale, che Croce comincia a fare sul serio, con un secondo posto a Mainz Finthen, uno di quei banali circuiti ospitati da un aeroporto militare, un terzo a Imola e un quarto a Pau. Conclude l’anno in crescendo, conquistando il successo proprio nella gara che affianca il Gran Premio d’Italia a Monza. La classifica finale lo vede al quarto posto. Il 1982 la berlinetta si congeda correndo sul ghiaccio (l’Ice Trophy Alfa Romeo Alitalia 1982 si articola su 4 prove, Croce si distingue in quella di Grainau, in Germania, nella quale coglie il 3. posto) e lasciando il posto alla più sportiva Sprint 1500. Potrebbe essere l’anno nel quale Croce ha tutte le carte in regola per aggiudicarsi il titolo, se non quello assoluto, almeno l’under 23. In palio ci sono due motori Alfa Novamotor per la successiva stagione della Formula 3 nazionale, una dote importante per qualsiasi scuderia. Alla prima gara, su un tracciato corto che del Nurburgring porta solo il nome, Croce va a vuoto, ma già nella successiva, a Imola, ottiene il secondo posto alle spalle del compagno di team Leone Pelachin. A Zolder, in Belgio, muore Villeneuve e Croce ottiene il suo secondo successo assoluto. In pista taglia il traguardo al secondo posto, ma la successiva squalifica del vincitore Campani per sottopeso gli assegna il massimo dei punti. A Vallelunga Pelachin e Croce si toccano. Il ferrarese è fuori. I rapporti tra i due compagni di scuderia si guastano. Il 1982 è l’anno nel quale è inevitabile guardare alle lotte in casa con fatalistico sospetto. Non è stato forse lo sgarbo di Pironi a Villeneuve a Imola e incidere sulla serenità del canadese? Ma Croce sembra non risentirne in maniera eccessiva e a Zandvoort ottiene di nuovo la vittoria con una gara tutta d’attacco, riducendo il distacco da Pelachin che guida la classifica. Il veneto si riscatta vincendo al Paul Ricard per un soffio, solo dieci centesimi, che Croce paga più che altro perché è la sua prima volta sul circuito francese. A Hockenheim si svolge una gara nervosa e caratterizzata da parecchi incidenti tra i quali i due aspiranti al titolo passano indenni, con Croce terzo e Pelachin quinto. Prossima tappa, Austria. A Zeltweg Croce distrugge la vettura in prova il venerdì, ma poi per la gara l’Alfa è pronta per gareggiare. Gli avversari sostengono che sia stata sostituita con quella del terzo pilota del team, operazione non permessa dal regolamento, ma non essendo stati verificati i numeri di telaio i sospetti rimangono tali. Croce giunge quarto, Pelachin esce di pista e il ferrarese si porta a solo due punti dal leader. Monza stavolta non porta bene a Croce, che entra in collisione con un altro dei protagonisti del campionato, Drovandi, campione dell’anno precedente, e nel corso di una furiosa rimonta subisce un’ammonizione dal direttore di gara per guida scorretta e a soli due giri dal traguardo esce di pista. La vittoria di Pelachin lascia pochissime chance a Croce, ma tutto si decide al Jarama. Purtroppo le cose in Spagna si mettono male fin dal semaforo verde. Croce viene coinvolto in un incidente multiplo, riesce comunque a riprendere la corsa, supera una quindicina di avversari e conclude ottavo. Pelachin si accontenta del terzo posto dietro a Drovandi e allo spagnolo Emilio Zapico ed è campione, festeggiato addirittura dal presidente dell’Alfa Massacesi.

1 Agli antipodi, l’Alfasud continuava a dar vita ad un popolare monomarca australiano https://www.shannons.com.au/club/news/racing-garage/alfasud-spicy-italian-recipe-just-add-racing-drivers-and-stir/

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RENATO CROCE, QUELLO STRANO PILOTA DEL TROFEO ALFASUD… – prima parte

RENATO CROCE

Renato Croce è stato uno dei più brillanti piloti italiani degli anni Ottanta. Al talento nella guida, qualità certo preziosa ma non rara, si sovrapponeva una sensibilità che lo rendeva un protagonista assolutamente anomalo nel panorama automobilistico di quegli anni.

È un libro sul “Movimento”, quello del ’77, che all’improvviso me ne fa ricordare. Cercavo di mettere a fuoco lo sfondo nel quale erano esplose le radio private. Mi capita la storia di Carlo Rivolta, il giornalista di Paese Sera, Repubblica e Lotta Continua. Ma io la storia di un giovane talento che si brucia l’ho già sentita da qualche parte. È parte di una generazione, quella che sfiora la mia, che non vedrà la fine degli Ottanta. Leggo Gli ultimi giorni di Pompeo di Pazienza, lì invece c’è Bologna e altre cose (Pompeo non guida forse la 33 erede dell’Alfasud, stesso boxer dal rombo argentino? non è la stessa auto di R. F., l’unico della mia classe – presto cacciato, già elementari aveva tirato un sasso in testa ad un compagno – che segue quella strada e che pretende che ogni curva ad angolo retto sia girata per forza tirando il freno a mano?), Croce cresce poco distante.

L’ALFASUD

L’Alfa Romeo Alfasud viene presentata al Salone di Torino del 1971. Perché un’Alfa Romeo (Romeo era l’ing. Nicola, che era di Sant’Antimo, ma Alfa era l’acronimo di Anonima Lombarda Fabbrica Automobili, nel cerchio spiccano il biscione visconteo e lo stemma di Milano) venga prodotta a pochi chilometri da Napoli, abbia motore boxer e addirittura trazione anteriore e sia piccola da stare nello stesso segmento della 128 deve essersi verificato un complicato vortice di concause. Ai dirigenti il prestigio dell’eccellenza tecnica dei motori bialbero, storica firma della Casa del Portello e di Arese, e delle prestazioni brillanti, confermate dai successi sportivi, non sono più sufficienti per le condizioni che stanno delineando il mercato automobilistico. Sono necessarie auto più piccole, servono i numeri. Nessuno dice utilitarie, nessuno vuole lo scontro diretto con la Fiat, ma delle medie con un Marchio d’eccellenza che possano vantare soluzioni moderne e relative economie di produzione. Le concorrenti per prezzo e cilindrata sono la Citroen GS, la Fiat 128 appunto, la Peugeot 204, la Ford Escort, volendo un paio di modelli Opel, la Kadett di vertice e l’Ascona bassa di gamma, e, qualche anno dopo, la Volkswagen Golf. Se la trazione anteriore è dunque la configurazione obbligata, più o meno lo stesso si può affermare del motore, considerando l’uomo che dirige la progettazione. Rudolf Hruska è una persona che rimane impressa anche a chi di automobilismo non gliene frega niente. Il volto lungo e quadrato, gli iridi chiari, il taglio degli occhi e i baffi sottili, i capelli in un onda perfetta e compatta. Ha collaborato con i programmi di Ferdinand Porsche prima della guerra, dal Maggiolino al trattore, e occupandosi dei collegamenti tra l’ufficio progetti a Zuffenhausen e la fabbrica Volkswagen a Wolfsburg. Al termine del conflitto partecipa, insieme all’altro austriaco già in ottimi rapporti con Porsche, Carlo Abarth, agli ambiziosi piani di Dusio con la Cisitalia, che toccano il vertice con la monoposto da Gran Premio, spinta ancora da un propulsore a cilindri contrapposti. Se il boxer è sempre stata la firma di Porsche, anche all’Alfa era stata scelta questa architettura per la biposto 33 TT e la successiva SC. Queste vetture vinceranno il campionato sport prototipi nel 1975 e nel ’77, mentre per la Formula 1 i tempi stavano cambiando, troppo ingombro per monoposto che si avviavano verso tutti gli sviluppi a pance libere che favorivano l’effetto suolo, e quello stesso motore, installato sia sulla Brabham che sulla stessa Alfa, otterrà solo risultati mediocri.

Dunque, boxer sia.

È un motore moderno, 1186 centimetri cubi, con distribuzione ad alberi a camme in testa e alimentazione con un solo carburatore. La potenza è di 63 cavalli a 6000 giri, il cambio a 4 marce e all’uscita del differenziale, per contenere le masse non sospese e migliorare tenuta di strada e comfort, ci sono i freni a disco. I dischi sono anche al posteriore, all’estremità di un semplice assale rigido. Il motore piatto permette di abbassare il baricentro e, si dice, di disegnare una vettura dal frontale basso e filante. La carrozzeria tracciata da Giugiaro è gradevole e sportiva, inizialmente in versione 4 porte e poi, dal ’74, ancora più aggressiva con la Ti a due porte, sempre però col 1186 cc e venti chili di massa in meno. Il primo incremento di cilindrata arriva nel 1977, per la Sprint con l’inedita carrozzeria coupé, sempre disegnata da Giugiaro. Siamo a 1286 cc per 76 cavalli. C’è un ritocchino anche per la berlinetta Super, che raggiunge i 1350 cc e i 71 cv. Nel ’79 arriva finalmente il motore da un litro e mezzo, disponibile sia per la berlina che per la coupé, con 85 cavalli.

RUDOLF HRUSKA

Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica

Vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India

Vorrei incontrarti ma non so cosa farei

Forse di gioia io di colpo piangerei

(Alan Sorrenti, Vorrei incontrarti, Aria, 1972)

POMIGLIANO D’ARCO

Al di là del prestigio conquistato con vetture straordinarie, la situazione finanziaria dell’Alfa Romeo, fondata nel 1910, non era mai stata particolarmente serena. La svolta è il 1933, anno per il quale addirittura si impone la sospensione formale dell’attività nei Gran Premi nonostante una vettura vincente come la P3, che sarà concessa solo a stagione inoltrata alla Scuderia Ferrari. In quell’anno la società lombarda entra a far parte dell’Istituto di Ricostruzione Industriale, ente statale costituito nel gennaio per proteggere l’economia nazionale da un denso groppo di circostanze negative1. L’I.R.I mantiene il controllo dell’Alfa fino al 1986, quando verrà assorbita dal Gruppo Fiat. Sul controllo statale si innestano le iniziative per lo sviluppo industriale del sud, dove l’Alfa può già contare sugli stabilimenti di Pomigliano D’Arco. Attivi fin dalla fine degli anni Trenta per la produzione di motori aeronautici, la vocazione celeste degli impianti si protrae fino agli anni Sessanta, prima contaminata dall’accordo con la Renault per la produzione della R4 e poi definitivamente dedicata all’automobile con il progetto Alfasud. La figura di Hruska abbraccia l’intero programma, la progettazione della vettura, la realizzazione stessa del gigantesco impianto, iniziato nel ’68 e con una superficie coperta di quasi mezzo milione di metri quadri, fino a ricoprire il ruolo di amministratore delegato dell’Alfasud, che rimane una società distinta dalla Casa madre.

Il dirigismo di Hruska si scontra con una sindacalizzazione molto forte, ma le consegne cominciano nel 1972 solo con qualche mese di ritardo. Il livello di qualità della vettura risulterà al di sotto media, un problema che si evidenzia soprattutto per la carrozzeria. Ben accolta anche nei Paesi del Nord Europa, presto l’opinione pubblica rimane delusa dalla corrosione dei lamierati e solamente con l’introduzione della Super nel ’77 si adotterà il trattamento più protettivo con lo Zincrometal e metodi più efficienti di verniciatura.

1Per dettagli e documenti cfr. anche Enrico Azzini, Bolidi rossi e camicie nere, storia delle competizioni automobilistiche durante il Fascismo, IBN, Roma 2011, p. 103 e ssgg..

ENRICO AZZINI è stato collaboratore di Autosprint dal 1990 al 1999 e inviato per il CIVM nel ’97 e ’98. Ha pubblicato BOLIDI ROSSI E CAMICIE NERE – Storia delle competizioni automobilistiche durante il Fascismo, VELE DA TERRA, AIRCRAFT FOR BEGINNERS, IL TENENTE PILOTA ENRICO GADDA – Breve vita del Gadda bello, spensierato e aviatore e TUTTE LE COSE CHE SCIVOLANO.

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CARLO EMILIO GADDA E L’AUTOMOBILE

“Nella vita civile di oggi l’utilitaria piccolo-borghese o la borghese media 1100-1500, così come l’autobus delle linee urbane e suburbane, risultano indispensabili:” e così sarà sicuramente anche per il 779.

Dei fratelli Gadda, Carlo Emilio era quello che non amava la velocità. Nonostante l’interesse professionale ma anche estetico per una perfetta meccanica come quella, esemplare, della mitragliatrice St. Etienne 1907, lo scrittore sembrò sempre soffrire di una idiosincrasia verso qualsiasi mezzo di trasporto che superasse la velocità del treno o del piroscafo (1).

Del terrore assoluto per l’automobile abbiamo diverse testimonianze pervenute sia dalla sua immaginativa che personali. No, il dottor Higueròa forse non tocca il tasto giusto quando magnifica le doti della figlia Giuseppina, quella lì la è nata al volante (2), l’idea della gita o delle lezioni di guida riscuotono in Gonzalo solo sorrisi brevi, circostanziati, che significa che non se ne fa niente. Nella vita vera, i viaggi sulla MG B rossa di Parise sono un elemento fondamentale per l’interesse di colore che la stampa ha voluto rivelare all’opinione pubblica di Gadda – ignorando parecchio del resto – un po’ come le uova divorate a dozzine o l’evidente preveggenza antiberlusconista di Eros e Priapo. Ma certo una foto del 1925 inviata allo scrittore da Ambrogio Gobbi (3) rimane il documento più significativo di quell’agghiacciante rapporto di un passeggero pietrificato con l’automobile e con possibilità spaventose.

E’ singolare che Pirelli pubblicasse un testo che… beh, non rappresenta proprio la più acclamante celebrazione dell’automobile; ma siamo nel 1963 e Gadda era ormai un autore di successo, con il Pasticciaccio ovviamente, ma anche la Cognizione, appena pubblicata. La rivista Pirelli, bimestrale, raccoglieva interventi di tecnici, artisti e intellettuali, in quella stessa annata troviamo tanto Giovanni Canestrini, il pilastro indiscusso del giornalismo d’automobile italiano, quanto Umberto Eco. Il pezzo dovrebbe risalire al ’54, forse composto per la RAI e che Gadda avrebbe voluto far inserire in Le meraviglie d’Italia (4). Portare granate al fronte, come i fanti, possiamo accettarlo come una conquista diffusamente apprezzata, meno tutto quel cavaturacciolo sul ladro che grazie al furto dell’automobile, per assenza di carceri e per benevolenza della giustizia, condonato, rientra nei ranghi della società civile. I vantaggi della motorizzazione appaiono come una concessione estorta con i ferri dell’Inquisizione, il cedimento di un istante, ed ecco che subito ritratta, se non altro con intento pedagogico, illustrando il pericolo che miete così tante vittime sulle strade. La ipersensibilità di Carlo Emilio Gadda – stavolta la ipersensibilità dei sensi, i cinque comuni appartenenti alla comune umanità – era offesa soprattutto nelle sue proprie private orecchie: avviamenti di motore notturni sotto le sue finestre, e le rabbiose cataratte delle saracinesche dei boxes. Ma poteva andar peggio. Dal manoscritto originale furono infatti espunti alcuni passi nei quali ricorreva ad un sopravanzo di mitologia classica per dar rilievo ad altre categorie favorite dall’automobile, gli amanti e i cassamortari:

Colui che guida o guiderà col gentile suo piffero le nostre anime all’Erebo, è, oggi, un cliente delle case costruttrici. Il vecchio corbillard impennacchiato e barocco, il nero tempietto semovente con le sue nere aigrettes, s’è tramutato in un sinistro autofurgone dal portamento e dalle sembianze, se non proprio areodinamiche [sic, della curatrice], tuttavia disinvolte alla corsa.

Enrico Azzini

(1) Enrico Azzini, Il tenente pilota Enrico Gadda, IBN, Roma 2014, p. 72.

(2) In Cognizione, Einaudi, Torino 1987, parte prima, III, 149 e ssgg.

(3) In <<…io sono un archiviòmane>> Carte recuperate dal Fondo Carlo Emilio Gadda, a cura di Paola Italia, Settegiorni Editore, Firenze 2003, p. 83.

(4) Divagazioni e garbuglio, Adelphi, Milano 2019, scheda a p. 534.

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IL MONDIALE DI FORMULA UNO DEL 1982 – GENNAIO #1

Aveva provato anche con un sistema chiamato ipnopedia visto su una rivista tra una pistola scacciacani e il bracciale magnetico della salute, ma Simone era ormai quasi certo che sua madre avesse proprio deciso di non regalarglielo un kart, quell’anno. Aveva piazzato il registratore che aveva ricevuto dallo zio per la cresima e aveva schiacciato play per far partire, quando sembrava che sua madre dormisse, il nastro che aveva inciso il pomeriggio, 45 minuti al cromo per ripetevano “Mamma comprami il kart, mamma comprami il kart…” Sua madre, nel buio, si tratteneva dal ridere. Ma, almeno per il momento, sperava che si trattasse solo di una decisione temporanea, niente. Ora un ragazzo con la sigaretta all’angolo destro della bocca e la tuta blu sporca d’olio aveva afferrato un tubo del telaio, divincolando uno dei mezzi dal disordinato groviglio di vecchi kart a noleggio. Le montagne russe stridevano e urlavano con una cadenza monotona, la cremagliera ticchettava, riprendevano fiato e di nuovo grida deformate precipitavano verso di loro. Sopra la pista piccoli giochi solitari allineati. Faceva un freddo cane che ammazzava i monocilindrici già logori, il fumo bianco era più un’esalazione che un respiro. Simone stava dividendo con Carlo una Dunhill blu proveniente da un’intera stecca che aveva acquistato l’estate precedente su un volo Japan Air Lines che tornava da Londra. Quando arrivò il loro turno ed il ragazzo con la sigaretta all’angolo destra della bocca fece un segnale svogliato i due si precipitarono verso il kart che gli era sembrato più competitivo. Ad un tratto Simone si era accorto che lui e Carlo stavano andando in direzioni differenti. Che accidenti stava succedendo? Carlo adesso era seduto e guardava l’amico sorridendo mentre il ragazzo con la tuta cominciava a spingerlo in mezzo alla pista. Aveva sbagliato numero, vaffanculo. Erano stati per mezz’ora ad osservare con aria seria il n. 13, scambiandosi commenti misurati, competenti, guardando i secondi correre sui loro orologi da polso al quarzo, e adesso Simone si stava sedendo controvoglia nel 18, su un kart che già sapeva perdente. Stava pensando ad altro, è vero. Lo sterzo è perso nel gioco degli snodi e cerca di convincersi che i pneumatici pieni, al contrario di tutti gli altri montati a camber positivo, offriranno certamente qualche vantaggio in curva, almeno nelle destre, o forse solo nelle sinistre.

Avevano speso le ultime lire ad una tenaglia in fila sopra la pista. Bracciali, pupazzi, automobiline. Simone manovrava le leve senza farsi illusioni. Sceglieva qualcosa che gli piaceva e le estremità delle dita metalliche scivolavano via. L’unica sfera trasparente che era riuscito ad afferrare sembrava contenere un anellino dorato con un cuore di plastica rossa. L’aveva sollevata davanti agli occhi, poi dopo averla osservata con disprezzo per qualche secondo l’aveva lasciata ricadere giù. Si erano avviati verso la fermata della metropolitana.

Simone aspettava il Mondiale che si apriva in Sud Africa. I team si trovavano già in fondo al Continente da un paio di settimane nelle quali il campione del mondo in carica aveva confermato il suo stato di grazia. Nelson Piquet con il turbo BMW aveva staccato i rivali più diretti di mezzo secondo. Si correva a Kyalami, nei sobborghi di Johannesburg. Anche il progettista della Brabham di Piquet è sudafricano, ma di Durban. A Simone Gordon Murray piace, lo considera un grande. Forse non al livello di Colin Chapman, ma molto vicino. Ha cominciato a far vincere le vetture che progettava a 27 anni, quando a fine ’72 Ron Tauranac era uscito dal team di Bernie Ecclestone.

Nel 1981 al Gran Premio sudafricano, inserito normalmente in calendario, era stata revocata la validità per la Formula Uno. Si era disputata ugualmente una gara alla quale avevano partecipato solo i team inglesi, vinta da Reutemann con la Williams. Gli attriti non erano stati risolti completamente, tirava ancora una brutta aria. E infatti le ostilità cominciano il mercoledì prima della gara. I piloti organizzano uno sciopero. Per Simone non è facile capire per quale motivo qualcuno che guadagna un sacco di soldi per fare il lavoro più bello del mondo debba scioperare. Si ritrova a conoscere parole nuove, da una parte ci sono i duri, i falchi, all’altro estremo i crumiri. Ad ogni modo all’ora prevista per le prove ufficiali si ritrovano comunque tutti – tranne Piquet – in pista.

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Joan Didion – DA DOVE VENGO – L’ambigua libertà della California

La Hoover Dam nel 2000 (Archivio Bandini-Azzini)

Non c’è stato viaggio in California nel quale non mi sia sentito minacciato dalla siccità. La prima permanenza di una certa durata fu a Ivanpah, che è un lago asciutto dalla superficie talmente omogenea che un giorno ci impedirono di fare avanti e indietro perché i satelliti ci calibrano i sensori VNIR e SWIR che lavorano sulla banda dell’infrarosso. E’ tagliato dall’I 15, proprio al confine con il Nevada, proseguendola per altri 200 km si arriva a Las Vegas. Che segni il confine con uno Stato nel quale il gioco d’azzardo è legale da sempre ha fatto sì che appena lo scavalli trovi un complesso di casinò e accessori, il più evidente dei quali è questa macchia di verde del Primm Valley Golf Club con due percorsi da 18 buche disegnate da Tom Fazio. Mentre in una conchetta lussureggiante dopo un colpo da quasi 300 yards ti avvii tra filari di pini, costeggiando il lago, è difficile percepire che attorno c’è una frazione del deserto del Mojave e l’unico segno di qualcosa di bizzarro e inquietante è il riflesso soprannaturale di una delle torri della centrale termica solare più grande del mondo.

La situazione è andata peggiorando nel corso degli anni. La siccità si è fatta più feroce, prosciugando quella costellazione di bacini naturali e artificiali che da sempre rappresentavano la riserva di uno Stato particolarmente idrovoro soprattutto per quel che riguarda l’agricoltura. Oltre ai campi da golf le colture di mandorle, o i pistacchi, e ovviamente le risaie sembrano rappresentare qualcosa di estremamente lontano da un sistema sostenibile nell’età del riscaldamento globale.

L’ambiguità di comodo editoriale di DA DOVE VENGO è definirla autobiografia, mentre in realtà il titolo la definisce correttamente come geografia. Comunque parte sempre dall’acqua Joan Didion che parla della California, questa parola mitica che affida la distruzione del suo stesso istituto a Joan Didion. Sulla bandiera dello Stato avrebbe certo più senso una donna minuta accanto ad una Corvette 3. serie gialla che un orso. Un personaggio centrale è sempre il fiume Sacramento, le cui frequenti inondazioni non sono regolate dalla volontà individuale e da un tenace spirito della frontiera, ma dai massicci interventi sostenuti dal denaro federale. Vale lo stesso per tutto quel sistema che permette, a costi irrisori per il californiano, di ostinarsi nel golf e nelle risaie di cui sopra. L’impegno è smascherare

un fittizio imperativo morale

“… in uno Stato dove la sfiducia nell’autorità del governo centrale è storicamente stata cambiata per etica” (p. 29)

e, nel viaggio dalle praterie all’oro oltre i passi mortali della Sierra, una tradizione di fondazione

“… l’insinuazione per cui la traversata, dopo tutto, non era una nobile odissea, ma forse solo un modo di sopravvivere, una lotta cieca condotta dalla <<generazione senza fissa dimora di vagabondi egoisti, cieca e stupida>> di Josiah Royce” (p. 47)

Dopo i tagli alle spese della Difesa e le delocalizzazioni a molti non rimase che vivere in un motel. L’esperimento di Lakewood, con il sogno di diventare proprietari di una vera casa americana, era fallito. (Archivio Bandini-Azzini)

Rientra nell’autorappresentazione di una terra infinitamente libera qualche omissione di una discreta rilevanza. Il potere della lobby del sindacato della polizia penitenziaria della California che aveva reso lo Stato il più grande carcere del mondo occidentale, 162.000 reclusi in 33 penitenziari nel 2000, oppure la determinazione con la quale si era sempre perseguita da parte dei manicomi statali la più piccola manifestazione di devianza, tanto che i censimenti a cavallo tra ‘800 e ‘900 arrivarono a definire infermo di mente un californiano su 260, con livelli di sterilizzazione, ovviamente legale, altissimi (nel 1920 il 79% di tutta la Repubblica, 2558 su 3233). O ancora, la xenofobia di una popolazione ovviamente meticcia ma illusoriamente coesa, anche giuridicamente, soprattutto nei confronti degli asiatici, con gli Alien Land Acts del 1913 e del 1920 che impedivano anche ai loro figli nati negli USA di possedere la terra e che furono aboliti solo nel ’52. Era inevitabile un significativo approccio relativista alla questione della “gente nuova”. Di norma quelli venuti dopo la Seconda Guerra Mondiale, o al massimo dall’ondata migratoria causata dal dust bowl, non certamente quelli che avevano attraversato praterie infestate da indiani e serpenti a sonagli o si erano nutriti di quelli che non ce l’avevano fatta sulla Sierra Nevada (il cannibalismo del Donner Party dell’inverno 1846-’47) solo un paio di generazioni prima, no?

Tra gli aspetti pedagogici per corrispondenti stranieri è che nella descrizione che Didion fa di meccanismi politici – di lobby, innanzitutto, come nel caso del McDonnell-Douglas-Boeing C-17 – non c’è traccia di schieramenti politici. E’ quella continuità che non ha nulla a che fare con la contrapposizione democratici/sinistra / repubblicani/destra che noi italiani vorremmo veder semplicemente replicata nel sistema americano. Il caso del C-17 ovviamente non è casuale, dal momento che buona parte della California narrata da Didion è quella che viveva sull’industria aerospaziale alimentata dai contratti della Difesa e dalla Guerra Fredda. Esemplare è la cittadina di Lakewood, creata dal nulla, a ridosso di Long Beach, degli stabilimenti Douglas e dei giacimenti di Signal Hill, 7 tipologie di case attorno ad uno dei centri commerciali più antichi degli Stati Uniti, 37 parchi giochi, sede del primo Denny’s, un livello di istruzione strutturato per assemblare un aereo e proprio nulla di più, un sistema di punteggi per le conquiste sessuali al college che fece scandalo dopo che i tagli della Difesa e le delocalizzazioni avevano sbracato tutto.

Di Didion non apprezzo solo la freddezza demolitrice dell’autrice ma anche, come sottolineato in precedenza, una competenza onnivora per la quale può essere considerata un’ingegnere idrogeologica, ma anche un’agronoma oppure un tecnico aerospaziale. Tuttavia il giudizio implacabile su questa vulgata così corrotta non ci può far dimenticare che lei stessa ne sia figlia fino al midollo. Potrei definirlo però un mio problema con Didion, perché scrive della California tutto quello che amo sentirmi dire.

JOAN DIDION – Da dove vengo, traduzione di SARA SULLAM, Il Saggiatore, Milano 2018

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LOTUS #4: Lotus Elite, Chapman strut e le incognite della scocca in vetroresina

La sospensione posteriore della Lotus Elite. A destra la prima versione del Chapman strut, derivata dalla monoposto Twelve, nella quale però il braccetto non era piegato ma dritto per sfruttare l’attacco del primitivo De Dion. A sinistra il gruppo della S2 con il triangolo inferiore molto angolato e allungato verso il centro vettura per una migliore geometria dinamica.

Sulla Lotus Elite (la Type 14, per distinguerla dalla 75 e dall’83 degli anni Settanta) convergono il desiderio di Chapman di realizzare una gran turismo leggera e veloce e l’esigenza di far cassa in quella fase particolarmente ambiziosa seguita ai primi successi sportivi – i più evidenti ottenuti dall’Eleven – e al trasferimento da Hornsey, in pratica dietro il pub del padre, al più razionale e moderno impianto di Cheshunt. Le aspettative in casa Lotus andarono deluse, confinando l’Elite ad una radiosa carriera da vettura da competizione, presente e futura, per tacer delle quotazioni. La versione stradale, al contrario, manifestò dei limiti che se furono tollerabili in Europa negli Stati Uniti raggiunsero la dimensione del disastro. Il coniglio che Chapman stavolta fece uscire dal berretto fu la scocca integrale in vetroresina. Per le quote di produzione previste questo tipo di costruzione rappresentava l’optimum, permettendo di sganciarsi da quella lavorazione manuale dei lamierati che aveva tenuto Chapman per il collo – a livello di costi, per i quali era così sensibile – con le carrozzerie appaltate a Williams & Pritchard. Lo stesso si può affermare per la parte strutturale, con il vantaggio che i tessuti si possono disporre in modo e quantità diverse per assorbire sollecitazioni diverse. Nell’ambito di un’evoluzione estremamente rapida, la meccanica era tutto sommato ben collaudata con sospensioni indipendenti mutuate dalla Twelve di F.2 del ’56-’57. Davanti triangolo inferiore solido, sopra braccetto e barra antirollio. Per il posteriore il ponte De Dion si era rivelato incompatibile con la leggerezza delle monoposto e sulla Twelve era stato presto rimpiazzato da quella avrebbe rappresentato una delle firme Lotus, il Chapman strut. Chapman adorava queste semplificazioni estreme di un concetto e francamente non si capacitava di come nessuno – a parte trascurabili eccezioni come la Goggomobil – ci avesse pensato prima. A guidarlo ovviamente la stella della riduzione della masse non sospese. Sulla Elite tuttavia il Chapman strut fu adottato soprattutto quando fu evidente che il serbatoio della benzina non poteva essere contenuto nella fiancata, all’interno di un vano con una tenuta che si rivelò per niente stagna. Spostarlo sopra l’asse posteriore costrinse ad adottare una sospensione più compatta rispetto agli ingombri di un ponte rigido o del De Dion. Il motore fu realizzato dalla Coventry Climax appositamente per questo modello e una sensibile trascuratezza nel bilanciamento trovava il suo trionfo di vibrazioni nella scocca di vetroresina. Della pittoresca derivazione del FWE da una leggerissima pompa portatile per i vigili del fuoco se ne è parlato in abbondanza.

Lontano dal controllo diretto di Chapman lo sviluppo della monoscocca alla Maximar di Pulborough – che godeva di un’ottima reputazione per la 505, una deriva a due in vetroresina molto planante – aveva preso una direzione ben diversa da quella originariamente immaginata dal patron della Lotus e concretizzatasi nel prototipo che aveva così impressionato all’Earls Court Show dell’ottobre del ’57. Del resto sarebbe stato piuttosto irrealistico, per una vettura per l’utilizzo stradale, seguire il progetto iniziale che prevedeva una singola pelle con il tessuto a vista o al più ricoperto da tappezzeria varia. Così sulle linee tracciate da Peter Kirwan-Taylor e poi ottimizzate da Frank Costin fu John Frayling, l’uomo Lotus alla Maximar, a lavorare su modelli e stampi e ad improvvisare di sua libera iniziativa – ma anche in assenza di direttive da Cheshunt – la struttura resistente scatolata del telaio. Lo formò con quella doppia pelle che premiava il risultato estetico finale, senza tessuto a vista, accettabile anche dall’interno, con una robustezza complessiva senz’altro migliore; d’altra parte costi e pesi aumentarono in maniera significativa, come anche i problemi di manutenzione, con zone rese assolutamente inaccessibili da pannelli incollati e laminati.1 Al momento dell’unione l’esiguo spazio tra i pannelli interni e quelli esterni non permetteva un’adeguata sovrapposizione del tessuto e anche l’incollaggio e la laminazione potevano dirsi lontani da severi standard qualitativi. Una più complessa dima smontabile sarebbe stata la soluzione ideale, e fu proposta per l’Elan prima che per questa, alla quale si era ormai trasferita la sopravvivenza commerciale della Lotus dopo il fiasco Elite, si preferisse un più tradizionale telaio in acciaio piegato2.

La Maximar non era entusiasta del contratto, tanto più che non era riuscita a rifiutare clausole molto rigide escogitate da Chapman con un pagamento ridotto della scocca completa in caso di scostamenti – in eccesso, ovvio – dal peso stabilito. Solo circa 150 scocche uscirono così da Pulborough. Nello stesso periodo tuttavia la divisione della Bristol che si occupava di costruzioni in composito non sapeva come impiegare i suoi impianti e il nucleo più consistente di Elite venne costruito da una delle più prestigiose Case aeronautiche del Regno Unito3.

Come a Cheshunt dopo i primi entusiasmi l’Elite venne collocata nel tabernacolo delle competizioni, negli Stati Uniti se ne prevedeva un eccellente futuro da Gran Turismo. L’esordio in gara, nella 12 Ore di Sebring del ’59, infatti non era stato particolarmente brillante, con un 21. posto e un ritiro. Principale interprete di questa visione l’importatore “esclusivo” di North Hollywood, Jay Chamberlain. Per fare vendite Chapman concesse con generosità l’”esclusività” del Marchio, alimentando dissapori che, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta furono difficili da ricomporre. Il contesto era complicato da leggi antitrust che rivelavano una connotazione fortemente protezionistica, terreno di avvocati e di “operator” dagli agganci giusti. Che in Lotus per la verità trovarono, fino a vedersi arrivare a Cheshunt Franklin Delano Roosevelt Jr., il figlio del Presidente, già importatore di Fiat e Abarth: non se ne fece nulla, ma suscitò qualche brivido. Nel ricco e affamato mercato californiano spettava dunque a Chamberlain di strappare clienti ad Alfa Romeo e Porsche. Lo standard qualitativo e l’affidabilità delle vetture italiane e tedesche era elevato, solo una GT perfetta avrebbe potuto essere competitiva. L’Elite non lo era, oltre ad un prezzo che si avvicinava ad auto di tutt’altro livello e finitura come la Jaguar E-Type, che stava entrando nel mercato.

I tempi di gestazione dell’Elite furono troppo lunghi per l’impulsività sanguigna di Chapman, che dopo la fase iniziale cominciò a provare un fastidio crescente per la piccola coupé. Un modello che a Cheshunt aveva messo a dura prova un po’ tutti. Si trattava di un territorio talmente inesplorato che anche formulare un capitolato di costruzione rappresentò una sfida notevole. La tecnologia corrente condusse a risultati insoddisfacenti. La lavorazione stessa presentava difficoltà che una manodopera specializzata avrebbe potuto forse superare, ma era complicato far rispettare degli standard che erano affidati ai singoli operai. A dispetto delle tolleranze poteva capitare che su una scocca il tessuto, soprattutto dove girava ad angolo retto, fosse steso in modo non adeguato agli sforzi che avrebbe dovuto sopportare. Anzi, se non voleva sapere di fare la curva, perché non tagliarlo e giuntarlo di testa (SIC!)? Fu questo il caso, per esempio, del sottogruppo scatolato che conteneva il differenziale, problema aggravato dal calore dei freni entrobordo difficile da smaltire. Altrettanto delicato era l’annegamento di piccoli elementi in metallo come gli inserti filettati che richiedevano più strisce di tessuto sovrapposte e incrociate. Ogni procedura escogitata rivelava vantaggi e svantaggi che spesso si annullavano. Il gel distaccante dallo stampo doveva venir spruzzato in un velo molto sottile, ma essendo trasparente non era facile controllarne la stesa uniforme; quindi si introdussero dei coloranti, ma a quel punto sull’elemento accoppiato non si aveva più la minima idea – era prassi controllare in controluce – di come procedessero la laminazione o l’incollaggio4. E come comportarsi con gli spessori eccessivi? Quel gonfiore su un pannello che veniva abraso via quanto lasciava di struttura resistente? Magari si tiravano via pelli su pelli di fibra di vetro e rimaneva solo colla. Giusto per fare qualche esempio. Il più grave tuttavia fu riconducibile al tipo di resina, di per sé già così sensibile a temperatura e umidità. Per questi laminati si lavora con due tipi di resina, la poliestere e l’epossidica. La prima, fetida, tossica, più economica, venne utilizzata per il grosso perché, suscettibile di maggiori distorsioni, lì non poteva far danni. La seconda invece, più docile, fu scelta per porte e cofani. Una volta consegnate a Chamberlain ci si accorse che l’implacabile radiazione ultravioletta californiana provocava una ripresa del processo di laminazione e tutti gli elementi lavorati in epossidica divennero più scuri del resto della carrozzeria. Tempo e soldi furono spesi per tagliare, ricucire e addirittura riverniciare completamente le carrozzerie, ma ormai il mercato nordamericano non era più interessato. La situazione era tale che lì si preferì spingere addirittura sulla Seven, che gli splendidi parafanghi e un motore di facile reperibilità e manutenzione – quello della A-H Sprite – rendevano nel ’61 relativamente civilizzata e appetibile. Dall’altra parte dell’Atlantico Chapman sperava nella Elan e soprattutto si concentrava sulle monoposto, il suo momento in Formula Uno stava arrivando: poco più di un migliaio di esemplari dell’Elite furono il prezzo di un’idea troppo avanzata per i tempi.

1 Questo al limite poteva sposarsi perfettamente con l’idiosincrasia di Chapman per il fornire ai clienti la benché minima possibilità di alterare le regolazioni di fabbrica, per esempio per le sospensioni: il camber di Cheshunt era sacro.

2 Anche questo fu una novità per Chapman, che abilmente lo improvvisò per avere qualcosa al quale collegare i componenti meccanici per i primi test.

3 La Bristol a quel tempo si divideva tra velivoli, motori aeronautici, settori che confluirono nel grande calderone della British Aircraft Corporation di lì a poco, nel 1960, e anche automobili complete, con una società che rimase indipendente. Ad un’altra ditta con un passato aeronautico fu invece appaltata la realizzazione dei paraurti, splendidi, fragili e con un costo da nababbi, anche se ormai la Miles Aircraft a quel tempo aveva nominalmente cessato la produzione di velivoli e l’attività si riassumeva in un gruppo di società più o meno operanti nel settore di provenienza (simulatori di volo, mappatura aerea, elettronica, lavorazione compositi).

4 Più precisamente, per l’incollaggio di parti già laminate si adottò una resina scura, in modo da poterne controllare controluce l’efficacia.

BIBLIOGRAFIA: Robin Read, Colin Chapman’s Lotus, Haynes, 1989

Enrico Azzini per ruotenelventonetwork. Enrico Azzini ha già scritto di Lotus con gli articoli:

LE SPORT EREDI DELLA ELEVEN

ELITE E PROBLEMI NEGLI USA

LA SEVEN VISTA DAL MOTORE

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CARS IN LITERATURE – Burgess, Cassady, Didion, Pasolini and Steinbeck

Enrico Azzini, 2020 – Anthony Burgess, The long day wanes

Enrico Azzini, 2014 – Neal Cassady, I vagabondi

Enrico Azzini, 2014 – Joan Didion

Enrico Azzini, 2019 – Pier Paolo Pasolini

Enrico Azzini, 2019 – John Steinbeck, Furore

 

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ANTHONY BURGESS – THE LONG DAY WANES – Trilogia malese

E’ difficile dire queste cose in una lingua come il malese. Ma quest’uomo, Platone, credeva che tutte le cose sulla terra non fossero che una copia di un chontoh dalam shurga, uno schema del cielo.

Così c’è un motore d’automobile nella mente di Dio e gli altri sulla terra cercano di imitarlo.

Qualcosa del genere.

E questo motore di Dio non si guasta mai?

Oh, no, non può. E’ perfetto.

Capisco -, Alladad Khan guidava costeggiando l’ennesima piantagione di gomma. – Ma che cosa se ne fa Dio di un motore?

Dio lo sa. (*)

Malayan jungle through the frame of a Allard P2 Safari

 

(*) A. Burgess, Trilogia malese, Einaudi, Torino 1999, p. 163.

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ATTORNO AL MARE # 2 – Carlo Emilio Gadda – La cognizione del dolore

Eppure venivano giù come un olio al loro imbandierato varo, varati finalmente nel sciocchezzaio con tutti gli onori e i carismi: carene insevate da stupidità. Più insulsi erano, e più felice e liscio gli andava sottoculo lo scivolo, giù, giù, dal croconsuelo verde del Monte Viejo alla tumefazione galleggiativa dell’avenida, bargigli al completo. Una qualche vecchia grinzosa si riusciva sempre a trovarla, nel magazzino delle vecchie, con sei e perfino sette denti in bocca, per mollare la bottiglia propiziatoria sulla prua dell’analfabeta: tanto da dare quel po’ di cocci in rimbalzo che il rito richiede, se Dio vuole, con quel bioccoletto di spuma.

(C. E. Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1987, p. 329, Parte seconda, VI, 399)

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